giovedì 11 ottobre 2012

Il Corvo e il Serpente

Si sentiva pesante.
Il corpo doleva in ogni punto e la testa pulsava violentemente.
La vista annebbiata vagava verso l'alto e vedeva grigio, forse un cielo cupo, gonfio di nuvole. Di tanto in tanto riusciva a delineare delle figure nere che sfrecciavano da un angolo all'altro del suo campo visivo, lasciando chiazze scure che gli rimanevano impresse quando chiudeva gli occhi. Il fango oramai secco gli tirava la pelle del viso.
Dov'era?
Cominciando a riprendere i sensi, realizzò di essere disteso sulla schiena. Le braccia gli pesavano a causa dell'armatura che, debole com'era in quel momento, gli pareva impossibile smuovere o sollevare. Il dolore si stava concentrando da qualche parte all'altezza del tronco, forse sul lato sinistro.
Le immagini sfocate cominciarono a prendere forma.
"Al termine di grandi battaglie si scatenano quasi sempre piogge straordinarie." aveva sentito dire una volta.
Grandi battaglie...
Quel pensiero accese qualcosa nel suo profondo. All'improvviso, come se fino a quel momento non avesse respirato, trasse un profondo respiro. L'odore di cadavere, assieme al dolore che questo gesto provocò al suo fianco ferito, lo stravolse e per poco non perse i sensi. Si rese conto che rimanere in mezzo a tutti quei corpi e al fango sarebbe stata la sua fine. 
Ogni muscolo del suo corpo protestava, ma alla fine il suo istinto prevalse.
Facendosi forza, cominciò a girarsi sul fianco illeso. Ogni movimento e ogni respiro gli facevano torcere le viscere per la nausea e il dolore, ma non poteva mollare. Lentamente, molto lentamente, appoggiò la mano sinistra a terra e spinse. Poi puntò il gomito destro e un po' alla volta si mise faticosamente a sedere. A tentoni trovò qualcosa a cui poggiare la schiena. Quando riuscì a raggiungere la sagoma rigida, qualunque cosa fosse, si lasciò andare e, sopraffatto dallo sforzo e dal dolore, chiuse gli occhi.
Quando li riaprì stava di nuovo piovendo. L’umidità copriva in parte l’odore di cadaveri che lo circondava e il sonno irrequieto, nonostante fosse stato lungi dall’essere riposante, gli aveva fatto recuperare qualche energia. La ferita continuava a pulsare, ma meno intensamente. Forse in realtà era meno grave di quanto gli era parso all’inizio.
Abbassò lo sguardo, scuotendo il capo per  risvegliare i sensi intorpiditi.
Tutto attorno a lui giacevano cadaveri. Molti di questi erano raggruppati o accatastati, ma almeno altrettanti giacevano abbandonati per tutto il campo di battaglia. Qui e là qualcuno di questi spiccava per qualche oggetto di valore, come un’armatura, ma la grande maggioranza era vestita in maniera povera o portava corazze leggere. Ovunque erano sparse picche e alcune armi corte come asce e daghe.
Gran parte dei soldati a terra portava le insegne di Forlì o il blu e giallo della famiglia Riario, mentre alcuni erano riconoscibili come mercenari o soldati dei contingenti alleati.
Cominciava a ricordare. Una guerra tra le famiglie Riario e Sforza per il controllo di un qualche territorio. Nonostante i ricordi cominciassero a riaffiorare era ancora tutto nebuloso e confuso. Da che parte aveva combattuto? Che ruolo aveva avuto?
Ricacciò questi pensieri. Ora doveva pensare alla propria sopravvivenza. Poco lontano da lui giaceva una lunga picca da fante piantata nel terreno. Poggiandosi di peso all’asta dell’arma gli riuscì di rialzarsi dopo pochi tentativi e di cominciare a muovere qualche passo barcollante. Guardandosi alle spalle s’accorse che fino a quel momento era rimasto appoggiato ad una sella ancora parzialmente attaccata a una carcassa di cavallo. A qualche distanza da questo era sdraiato un uomo in armatura pesante, forse lo stesso cavaliere trascinato a terra dal nemico prima che la sua cavalcatura venisse abbattuta. Il corpo del guerriero era parzialmente nascosto da un ampio cespuglio sulla soglia d’un boschetto ai margini del campo di battaglia. Decise di avvicinarsi.
Spostando alcuni rami secchi con l’asta dell’arma vide un’armatura riccamente ornata recante sul petto lo stemma di un serpente dorato che risaliva a spire dalle cui fauci usciva un uomo con le braccia alzate: il simbolo del Casato Sforza. Al fianco, appesa ad un pesante cinturone, pendeva un ornato fodero di spada, mentre l’arma stessa era appena visibile sotto al fogliame autunnale a qualche passo di distanza. Incuriosito, risalì con lo sguardo fino al volto del guerriero. Non doveva avere più di una quarantina d’anni. Il viso squadrato increspato dalle rughe e dalle cicatrici di molte battaglie era coperto da una barba chiara e ispida che a tratti sfumava verso il grigio. Gli occhi scuri erano socchiusi. Un volto che lui aveva certamente già visto prima.
Guardò meglio.
Il viso dell’altro riprese vita. Debolmente riuscì ad aprire gli occhi e lo guardò. “Massimo.” Riuscì a dire, quasi sottovoce. “Oh, grazie a Dio...” Mugugnò.
Massimo. Il suo stesso nome gli piombò addosso come un peso, dandogli nuovamente una dimensione in quella situazione surreale. Massimo Lupi detto “il Corvino” o “il Corvo”, soldato di ventura al soldo di Venezia. I pezzi stavano cominciando a tornare al loro posto.
“Costanzo Sforza.” Rispose lui, a mezza voce. “Siete più coriace di quanto non mi aspettassi.”
“Ti sorprenderei, ragazzo.” Tossì piuttosto violentemente, nello sforzo di parlare. “Non sono sopravvissuto a guerre con Veneziani, Fiorentini e Romani per farmi ammazzare da quello stolto del Riario.” Sputò quel nome con disprezzo.
“Mi sa che questa volta ci siete andato più vicino di quanto non vorreste ammettere.”
“Sciocchezze! In Toscana ho visto di peggio.” Borbottò l’altro. “Ed ora dammi una mano ad alzarmi... Temo d’essermi rotto una gamba.”
Faticò non poco per rimetterlo in piedi e spesso dovette fermarsi perché una volta doleva il fianco a lui, una volta la gamba all’altro, un’altra ancora perché il peso o qualche pezzo dell’armatura dello Sforza gli impediva di muoversi bene. Per quel poco che ne sapeva Massimo dell’arte medica appresa sul campo di battaglia, la gamba del cavaliere, seppur probabilmente spezzata, era fortunatamente in condizioni abbastanza buone da affrontare un breve viaggio almeno fino a Montelabbate.
Quando riuscirono a mettersi in marcia era ormai pomeriggio inoltrato e, attraverso le nuvole che andavano diradandosi, si poteva vedere il sole calare verso ovest. Mentre attraversavano il campo di battaglia, il vecchio analizzò la disposizione dei morti con occhio esperto. “Temevo peggio.” Affermò dopo un lungo silenzio. “Alla faccia di quel dannato Girolamo. I suoi archibugi non sono valsi quel che li ha pagati, a quanto pare.” Molti dei cadaveri a terra, notò Massimo, recavano le insegne della Chiesa o del casato Riario. “Pace all’anima di questi poveri diavoli.” Commentò Costanzo. “Erano dei bravi soldati. Uno spreco per questa guerra inutile."
Guerra inutile. Uno strano concetto per soldati di ventura, come loro, disposti a combattere per il migliore offerente. Costanzo Sforza stesso aveva combattuto dall’altra parte del fronte, appena qualche anno prima, poi era passato coi milanesi ed ora parteggiava per Venezia in cambio di una buona condotta di militari ed il titolo di Governatore Generale.
“Raccogli la mia spada, ragazzo. Torniamo al castello.” Concluse lo Sforza con voce roca. “Per oggi ne ho avuto abbastanza, di tutto questo.”

Il castello di Montelabbate si trovava poco più a sud e fin da lì lo si poteva vedere stagliarsi in cima alla collina sopra il paese. L’attacco nemico, proveniente da nord, li aveva costretti ad uscire allo scoperto per evitare che la cittadina venisse saccheggiata dai soldati del Borrini, tra i quali molti erano mercenari.
Massimo da solo avrebbe raggiunto la fortezza prima del calar del sole, ma con lo Sforza ferito sarebbero arrivati certamente dopo il calar del sole.
Dapprima dovettero discendere il fianco della collina sulla quale s’era combattuta la battaglia, lungo un percorso di sentieri che attraversavano basse boscaglie piene di rovi. La discesa fu difficile e più volte dovettero fermarsi, perché Costanzo continuava a tossire ed accusare dolori ad ogni parte del corpo.
L’attraversamento della vallata tra le due colline fu più semplice, poiché il terreno pianeggiante e coltivato poneva meno ostacoli e permetteva ai due di proseguire abbastanza rapidamente nonostante il sole fosse oramai svanito tra i colli in cima alla valle.
Massimo però non riusciva a trovare pace. Mentre il suo Signore sembrava via via distendersi man mano che si allontanavano dalla battaglia, per quanto glielo consentissero le sue ferite, Massimo continuava ad essere teso. Si sentiva osservato e nella sua mente si stava facendo strada il timore d’essere seguito. Da chi?Si fermarono di nuovo, questa volta in un piccolo piazzale all’incrocio tra due vie sterrate che attraversavano i campi. Costanzo stava mostrando segni di debolezza sempre più evidenti ed era stremato per la lunga marcia in quelle condizioni. Massimo lo fece sedere su un masso  dalla superfice piatta e si appoggiò alla lancia per riprendere fiato.
Fu in quel momento che se ne accorse.
Un movimento tra le piante del boschetto alla sua sinistra. Sulle prime pensò si potesse trattare d’un animale, ma i suoi timori lo fecero desistere da una giustificazione tanto semplice. Rimase in ascolto per qualche altro momento, guardandosi attorno e tendendo le orecchie ad ogni minimo suono.
Sulle prime, nulla.
Poi però di nuovo un suono, questa volta più vicino, un fruscio dal campo di grano nella direzione opposta al primo movimento che aveva individuato. Il sospetto si stava facendo convizione.
Si raddrizzò e prese la lancia con entrambe le mani, puntandola alternamente verso il bosco e verso il campo, aspettandosi di veder qualcosa balzare fuori in qualsiasi momento.
Una breve occhiata al ferito che, esausto, non s’era accorto di nulla e continuava a portare le mani alla gamba ferita, cercando di trattenersi dal gemere di dolore.
“Mio Signore.” Intervenne a mezzavoce Massimo. “Mio Signore Sforza.”
“Che... Che c’è?” Chiese l’altro di rimando evidentemente scocciato quanto dolente per la ferita.
“Temo ci abbiano seguito.”
“Che diavolo stai dicendo, ragazzo? Chi?”
“Loro...”
Si stavano facendo avanti dalle ombre della sera, ammantati di nero, dei figuri scuri coi volti coperti. Al chiarore degli ultimi raggi del sole, il ferro d’una lama brillava nell’oscurità tra le fronde.
Massimo puntò la lancia e piantò i piedi.
Erano circondati.

Questa è la prima puntata della serie che sto scrivendo dal (provvisorio) titolo "Anno Domini 1483".
Sto facendo delle ricerche storiche via web sull'epoca per rendere meglio i personaggi e l'atmosfera e devo dire che mi sono reso conto d'aver sempre sottovalutato questo periodo storico affascinante e ricco d'intrighi.
Vi lascio due link per saperne di più su qualche nome che è stato fatto nella puntata di oggi:
Costanzo I Sforza
Girolamo Riario

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